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cinema e spettacolo

L'infermiera

di Giordano Cotichelli

Film dell’orrore, thriller ed action movie, gialli di ogni tipo uniti a docu-film che parlano di ogni possibile crimine e serial killer che l’umanità ha avuto, sono prodotti che, attualmente, vanno per la maggiore. E Netflix, in punta di piedi, ma non più di tanto, visto il successo di “The good nurse” ripropone lo stesso argomento con “L’infermiera”, mini-serie di crime-story basata su una storia vera.

Netflix ha puntato ancora una volta sulla vita ospedaliera

"L'Infermiera", Netflix: Un'infermiera appena arrivata in ospedale sospetta che la ricerca di attenzione di una collega possa essere collegata a una serie di decessi tra i pazienti. Da una storia vera.

È disponibile sulla piattaforma televisiva Netflix una mini-serie di crime-story con protagonista un’infermiera. Dopo il film "The good nurse" e il relativo documentario dello scorso autunno, un altro “angelo della morte” fa parlare di sé.

La storia, anche in questo caso vera, è ambientata nella provincia danese, lontano dai frastuoni della modernità e della capitale.

Qui si ritrova un piccolo ospedale (Nykobing Falster Hospital) che risponde alle esigenze sanitarie del territorio, dove una popolazione piuttosto attempata afferisce periodicamente ai servizi e al Pronto soccorso in particolare, del nosocomio.

Uno spaccato umano fatto di anziani, spesso portatori di poli-patologie ed in pochi casi pessimi esempi di stili di vita non propriamente salubri legati all’alcol, al fumo e al consumo di cibi ricchi di grassi saturi.

Nulla di strano se quindi, ogni tanto, il personale medico e quello infermieristico si trovano ad affrontare emergenze sanitarie importanti che portano anche alla morte di pazienti i quali, fino a poco prima, non presentavano però particolari disturbi. Nessuno si meraviglia più di tanto, anche se le morti improvvise cominciano ad essere, a partire dagli anni ’10, abbastanza numerose.

La mini-serie parla quindi della vicenda di Christina Aistrup Hansen, infermiera, responsabile di un non ben precisato numero di decessi che però non riescono ad essere dimostrati nella loro totalità. Ciò nonostante, grazie alla collega Pernille Kurzmann Larsen, viene arrestata con l’accusa di tre omicidi e di un tentato omicidio. Il tutto durante lo stesso turno di lavoro.

Christina verrà condannata prima all’ergastolo e poi a 12 anni, dato che, per le morti imputate, non si è riusciti a dimostrare una correlazione diretta con l’operato dell’infermiera. Christina sarà poi giudicata affetta da un disturbo istrionico della personalità in un quadro di intelligenza media nonostante, prima dell’arresto, fosse ben considerata nel suo lavoro assistenziale e nella gestione dell’emergenza.

Nessun timore di anticipazioni di sorta

La mini-serie è ben condotta e quanto scritto serve unicamente ad introdurre in maniera più agevole alla visione del film e a consentire in seguito anche qualche pensiero ulteriore oltre la scontata condanna dei fatti narrati.

Netflix ha puntato ancora una volta sulla vita ospedaliera, nella dimensione del crimine in camice bianco, dove il torbido e l’indignazione si vendono bene ad una platea abituata a valutare ogni aspetto della vita attraverso le pulsioni animalesche che scuotono un cervello sempre più povero di razionalità e intossicato di una adrenalina pompata nei vasi, o attraverso sport estremi o con il succedaneo della playstation, con commenti infuocati da bar, spettatori di una tivù spazzatura o nella visione di un film splatter ricco di sesso e sangue.

Film dell’orrore, thriller ed action movie, gialli di ogni tipo uniti a docu-film che parlano di ogni possibile crimine e serial killer che l’umanità ha avuto, sono prodotti che, attualmente, vanno per la maggiore. E Netflix, in punta di piedi, ma non più di tanto, visto il successo di “The good nurse” ripropone lo stesso argomento con “L’infermiera”.

Poco male. La serie è bella, gli attori fanno bene il loro lavoro e la storia si regge senza bisogno di musiche e colpi di scena cui la pessima cinematografia hollywoodiana ci ha assuefatti. Di sangue insomma se ne vede molto poco e l’ospedale di Falster appare per quello che è: una piccola fabbrica della salute dove, dietro le sue vetrate si aggiustano gli umani “rotti”, quando si può, e come si può.

Il Pronto soccorso dove lavorano le due infermiere è molto lontano dalle rappresentazioni neuro-ormonali delle serie sincopate statunitensi. Nelle scene in cui si vedono arrivare dei pazienti non c’è nessuno che recita la quantità di soluzione di cloruro di sodio infusa (ma non si chiamava… fisiologica?), l’età e men che meno... la razza di appartenenza.

Per lo più il reparto viene rappresentato durante il turno di notte: un ampio corridoio, immerso nel silenzio, illuminato ora dalle luci notturne ora dal sorgere del sole. Qualcosa di molto simile e di molto conosciuto a ciò in cui molti di noi, spesso, hanno speso ore di vita durante il turno lavorativo.

Certo un po’ di adrenalina non si nega a nessuno, specie quando si tratta di un allarme che suona, di un’emergenza che chiama tutti a raccolta, all’azione, capace di condurre lo spettatore all’ineluttabilità dell’esito finale a carico del malcapitato di turno, in una realtà semplice ma d’effetto.

Ecco, il merito di una grande pellicola sta proprio in questo: riuscire a far immedesimare lo spettatore nei protagonisti della storia narrata; e in questo caso, il buon esito della rappresentazione filmica, deve essere moltiplicato per due: da un lato lo spettatore laico, promosso sul campo sanitario d’eccezione, si ritrova in grado di afferrare il susseguirsi dei momenti più pregnanti dell’operare infermieristico rappresentato, mentre dall’altro lo spettatore infermiere viene preso per il bavero e costretto ad un’empatia astratta che gli fa osservare dall’esterno manovre conosciute e ripetute centinaia, migliaia, di volte che ora, “deve” vedere per la prima volta con occhi diversi dal solito.

E poi ci sono loro due: Christina e Pernille, le due infermiere, esempi estremi di una stessa identità professionale. La prima è il personaggio reale di un protagonismo malato di cui ogni sanitario può essere potenzialmente portatore, stretto fra due estremi: l’insignificante narcisismo con cui ci si loda per aver fatto del bene ad un proprio simile e la dimensione patologica, e criminogena, che trasforma il lavoro di cura nell’espressione assassina di un potere totalizzante e distruttivo.

Ad opporsi a tutto ciò c’è la Pernille che alberga in tutti noi, e che non necessariamente riesce ad affrontare, arrestare e sconfiggere il male. Non necessariamente da questo non ne viene a sua volta travolta. Nella migliore delle ipotesi il sistema e le colleghe, i superiori e noi stessi saremo un ostacolo da superare per un ritorno alla normalità. Quale poi, non è facile da definire. Per il momento tanto basta.

È sufficiente lasciare Cristiana e Pernille mentre si avviano al lavoro, entrano nella fabbrica della salute, si cambiano nella quotidianità lavorativa dello spogliatoio, salutano colleghe che se ne vanno o che arrivano, mentre fanno qualche pettegolezzo su questo e su quella. Per molti qualcosa di conosciuto e assolutamente normale.

Ecco sì, la normalità. Ancora lei, quella di sempre, di ogni giorno, dell’eccezionalità di un’urgenza in cui si è portati a considerarsi in grado di decidere della vita degli altri e della propria, grazie (a causa?) di quella “cosa” che, immersa nel tecnicismo della pratica sanitaria, può far addormentare la ragione.

Ed il sonno della ragione, lo sappiamo, genera mostri. E contro di questi molto spesso non bastano i buoni sentimenti. La miniserie di cui si è detto parla anche di tutto questo, di come non bisogna rimanere da soli di fronte alla sofferenza altrui, di fronte alla sofferenza propria.

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