Metti un giorno che vai al cinema. Di domenica, come si faceva una volta. E magari trovi anche una bella fila da fare. Il disagio dell’attesa un po’ si stempera con il piacere di vedere che ancora qualche momento di condivisione collettiva in questo paese esiste, oltre i riti tribali cui da sempre si è assuefatti. Iperboli forzate? In parte, ma dopo aver visto il film di Paola Cortellesi : “C’è ancora domani ”, le sensazioni provate sono quelle descritte, amplificate poi dalla presenza di una sala piena, il cui pubblico, al termine della proiezione, se n’è uscito con un applauso liberatorio.
Un piacevole sorso di acqua fresca in questo deserto culturale
Delia, interpretata da Paola Cortellesi, protagonista del film "C'è ancora domani".
Non tutti hanno applaudito, ma molti lo hanno fatto per sottolineare la pregevolezza dello spettacolo.
Le reazioni al film invece, da parte degli addetti ai lavori, sono state le più svariate.
Personalmente credo che, al di qualsiasi valutazione tecnica o prosaica, il lavoro della Cortellesi sia un piacevole sorso di acqua fresca in questo deserto culturale fatto di supereroi tossici, notizie negate, riscritture storiche e ritorno in grande stile di una immagine della donna che molti credevano superata in un’Italia invece che continua a volerla produttrice di figli per la patria, oggetto di piacere per i maschietti del reame e serva “H24” per le gerarchie degli obblighi familiari di sempre.
Il personaggio interpretato dalla Cortellesi è infatti una madre di famiglia, Delia, stretta fra la violenza economica della quotidianità – fa almeno cinque o sei lavoretti per portare qualche lira a casa – e la violenza domestica sostenuta da un inossidabile Mastrandrea che interpreta Ivano, il marito un po’ nervoso, perché ha fatto due guerre (siamo nel maggio del 1946); marito che, sistematicamente, afferma la sua visione del mondo picchiando Delia.
Sullo sfondo c’è una Roma in bianco e nero, una rappresentazione a metà strada fra un tentativo di narrazione neorealistica e il bisogno di legarsi alla memoria di un paese le cui immagini a colori sarebbero arrivate solo molto tempo dopo, e non senza sacrifici.
In questo la regista-attrice strizza l’occhio ancor più al passato. Sembra di ritrovare l’angolo di strada della carbonaia ai piedi della scalinata del film dei soliti ignoti, mentre il rito della colazione mattutina, con cui si apre il film, richiama un po’ la Loren che prepara caffè e latte per tutta la sua fascistissima famiglia nel film “Una giornata particolare” di Ettore Scola.
E poi, anche la corte interna delle case popolari in cui vive la famiglia di Delia ricorda molte altre location del passato. E non è certo esagerato paragonare lo scantinato dove vivono i nostri protagonisti a quello fiorentino in cui la famiglia miserabile del decaduto Conte Mascetti (alias Ugo Tognazzi) si trasferisce nel celebre film “Amici miei”.
Chissà se per questo o per altre ragioni qualcuno ha rimproverato alla Cortellesi di non aver rinunciato, nonostante la drammaticità del personaggio interpretato, al mondo della comicità – qualcuno la chiamerebbe satira – delle sue origini. E se anche così fosse?
È riuscita ad ogni modo a costruire una storia che porta lo spettatore per mano lungo tutta la narrazione offrendogli tutto ciò che un buon racconto riesce a creare: tensione, speranza, qualche risata, informazione e, soprattutto, immedesimazione.
Già immedesimazione , in quanto sarà difficile che una buona parte degli spettatori non si sia immedesimato nel comportamento cattivo dei maschi (come maschi) o nella rassegnazione servile delle donne (ma non di tutte) come donne.
Cara taci, non sono discussioni che ti competono , sono le parole che il padre del fidanzatino della figlia di Delia usa per redarguire la moglie. Lei, la moglie, è colpevole di aver espresso una sua opinione su un possibile argomento politico di conversazione che viene subito stroncato sul nascere. E c’è pure il suocero di Delia, Ottorino, interpretato da Giorgio Colangeli, giornalmente servito e riverito dalla nuora, la quale lo crede infermo al letto, ma in realtà è in grado di camminare.
Il caro Ottorino si sente in dovere di consigliare al figlio Ivano di non picchiare così spesso la moglie sennò… si abitua. Deve essere in grado di picchiarla con meno frequenza, ma con maggiore intensità quando è necessario. Un quadro familiare che, inutile dire, porta la figura di Delia ad essere considerata sostanzialmente colpevole della sua condizione da parte dei figli.
Insomma, la donna maltrattata , schiavizzata, negata, più che generare compassione e solidarietà, smuove una sorta di victim blaming, di colpevolizzazione della vittima stessa. E quindi: Ma perché te fai trattà in questo modo , non possono che essere le parole, pronunciate con rabbia ad un certo punto, dalla figlia di fronte all’ennesima violenza subita da parte della genitrice.
Per Delia sembra non esserci via d’uscita, se non, forse, nell’amicizia e nella complicità fra donne, nell’amore vero, nella partecipazione o nella solidarietà da parte di chi, come lei, è abituato ad essere schiavo.
Qualcuno ha scritto che il film della Cortellesi è un po’ troppo didascalico
Probabilmente un po’ lo è. Anche di più se si vuole. E chissenefrega? Il prodotto alla fine ha regalato una bella storia, e se poi questa è servita anche per parlare delle donne, e di tutti i loro problemi, c’è qualcosa di male?
Cerchiamo di fare il punto. Ad un certo punto del film Delia scopre che il padrone di una bottega per cui faceva dei lavoretti, pagava molto di più un giovane lavorante apprendista che lei in servizio da tre anni. Alle proteste della donna il padrone risponde: Ma lui è maschio .
Beh, sì! Forse con battute di questo tipo il film rischia di essere troppo didascalico, ma è il minimo che possa fare in un paese dove, al 25 ottobre scorso, il numero delle donne ammazzate è arrivato a cento.
E da allora, altre povere sventurate hanno ritoccato il totale e, purtroppo, la contabilità continuerà a salire, fino alla fine dell’anno, e a quando non si porrà fine alla cultura dell’odio, gerarchica e maschilista, che contamina questa contemporaneità. E poi cosa si può pretendere da un singolo lavoro.
Ci vuole molto di più di un semplice film per sollevare una questione di genere che continua a soffrire di disparità, e ad essere trattata quasi come fenomeno da baraccone o tragica fatalità. È il caso della tragedia che ha colpito due piccole creature uccise qualche anno fa dalla madre ventisettenne perché “il loro pianto era insopportabile”. Così almeno hanno riportato buona parte dei media.
Della condizione della donna, sul piano familiare, relazionale, sociale, ed economico poco si è stato detto. Probabilmente qualcuno ha parlato di depressione post-partum o di baby blues, ma vallo a sapere dove, come e quando.
Insomma, se il film della Cortellesi è un po’ troppo didascalico, è proprio un piacere aver appreso qualcosa di più, di questo mondo, grazie al suo lavoro. Poi, per i diritti delle donne c’è molta strada da recuperare, e molta di più da fare.
Poi, c’è anche chi pensa che l’impegno personale e collettivo è sempre un buon punto di partenza. Come nel caso delle contestazioni per la ripresa delle celebrazioni religiose, a Potenza, nella chiesa che ha visto consumarsi la tragica vicenda di Elisa Claps. Non dico di più per non sembrare a mia volta… troppo didascalico.
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