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Testimonianze

Staccare la spina, il caso Archie Battersbee

di Monica Vaccaretti

Si dice comunemente “staccare la spina” per ricaricare il cervello in situazioni di stanchezza mentale così da liberarsi da ansia e stress prolungato. È un modo di dire, nel gergo popolare. Ma diventa un modo di fare, non letterario, quando significa anche causare la fine di qualcosa che già è in crisi o in decadenza, come si legge sul vocabolario. Può purtroppo voler dire causare la fine di qualcuno, quando sta troppo male per vivere ancora in condizioni ritenute inaccettabili o quando l'esistenza non è più considerata degna e dignitosa. Si stacca la spina quando la vita è appesa al soffio di una macchina e attaccata alla corrente elettrica di un'attrezzatura medica. Staccare la spina in questo caso spegne del tutto il cervello, o quello che ne rimane. È porre fine ad ogni trattamento, oltremodo ritenuto inutile. E poi aspettare .

Vegetare non è vivere. È il sopravvivere di un corpo, senza niente dentro

Staccare la spina è forse un gesto indolore per chi giace già immobile in un letto d'ospedale ma fa certamente male a chi resta, vicino e mai veramente lontano dalla persona cara inerme tra tubi corrugati, deflussori e sondini vari. Staccare la spina può essere un sollievo alla pena ed uno strazio infinito, non c'è nessuna differenza nel misurare o dare un nome al dolore. Quando poi la spina si stacca ad un bambino, il cuore di una madre ed un padre si staccano dal corpo. Si fa un colpo, il dolore è talmente forte da fare un infarto, com'è capitato al babbo di Archie Battersbee, il dodicenne inglese che si è spento lo scorso 6 agosto al London Royal Hospital di Londra. Il Big Ben aveva da un quarto d'ora battuto mezzogiorno, ora di Greenwich.

Se n'è andato, lo hanno lasciato andare, in un giorno d'estate. Sarebbe stato già morto in primavera, se le manovre rianimatorie non lo avessero tenuto ancora in vita. Come si fa a non fare l'impossibile per salvare un bambino trovato incosciente nella sua camera? Il cuore riprende a battere ma i danni al cervello sono irreversibili. Bastano sette minuti senza ossigeno. Archie non aveva mai ripreso coscienza, nonostante l'intervento dei sanitari che lo avevano soccorso. Era vivo ma in stato vegetativo.

Vegetare non è vivere. È il sopravvivere di un corpo, senza niente dentro. Cosa siamo, senza la scintilla di vita negli occhi? Senza ragione, o chiamatela anima o spirito, senza coscienza di sé e del mondo che continua a circondarci senza che noi ce ne accorgiamo, cosa siamo?

Staccare la spina significa sospendere il supporto delle funzioni vitali. Vuol dire interrompere la ventilazione artificiale, che ti tiene in vita. Staccare i macchinari. Premere off. È togliere il tubo che ti permette di respirare. Si resiste senza aria quel che si può resistere, minuti o ore. Dipende da quanto forti si è fino alla fine. Archie ha lottato, ci ha messo due ore per diventare tutto blu in faccia, ha detto la sua mamma. Il cuore così si ferma, il cervello era già in coma irreversibile dallo scorso aprile. Secondo la diagnosi medica non c'era più niente da fare sin dall'inizio, quando il ragazzino era stato trovato dalla madre con una corda attorno al collo nella sua casa, pare per un tragico gioco finito male. Una challange sui social, una di quelle folli sfide che sono di moda tra gli adolescenti ai nostri strani tempi.

Tik Tok. Giochiamo all'asfissia? Tik Tok. Toc Toc, Archie cosa fai chiuso in camera tua? Archie, scendi che la cena è pronta. Archie? Archie! Dio mio che hai fatto? 999.

Perché nella nostra società ci si sfida tra coetanei ad autostrangolarsi? È inquietante.

Nessuna possibilità di appello

La madre Hollie ha fatto di tutto. É andata dappertutto, tramite i suoi avvocati. Si è rivolta a tutte le Corti legali, dapprima nel Regno Unito poi nel resto del mondo civile, dall'Alta Corte alla Corte d'Appello. Non è stato sufficiente. Allora si è appellata alla Corte Suprema e alla Corte Europea per i diritti dell'Uomo. Non è bastato. Ha chiesto che si esprimessero in estrema ratio le Nazioni Unite, appellandosi al comitato per i diritti delle persone disabili. La giurisdizione britannica non riconosce purtroppo tale comitato. Non può tenerne conto. La mamma voleva ottenere il prolungamento dell'assistenza o il trasferimento del figlio in un hospice per malati terminali, opponendosi così alla decisione del Tribunale che aveva ordinato ai medici di staccare la spina a suo figlio. Ogni ricorso, anche l'ultimo, con la disperata richiesta di portarlo all'estero, è stato respinto. La mamma sperava di farlo ricoverare in Italia o in Giappone, Paesi dove, in base alle normative di legge, strutture accreditate si erano dette pronte a continuare a garantirgli un sostegno vitale a lungo termine.

La sentenza dei giudici inglesi è stata di lasciare morire il bambino. I medici che lo avevano in cura non avevano più opzioni terapeutiche per salvare Archie. I genitori volevano farlo dimettere dall'ospedale e ricoverarlo in una struttura sanitaria vicino a casa, nella regione dell'Essex, così da accompagnarlo alla morte. Ci vuole tempo per prepararsi al distacco. A dire addio. Ci vuole modo. Volevano concedergli “una morte più degna e pacifica”, era il parere dei genitori. Sono scelte dettate dal cuore, più che dalla ragione. Gli ultimi giorni sono fatti per stare insieme, come se si fosse a casa, in un ambiente simile a casa. Ma anche i giudici di Strasburgo hanno rigettato l'istanza, dichiarando che non era di loro competenza interferire con le scelte dei giudici nazionali. Secondo i medici era “altamente probabile la morte delle cellule celebrali”, pertanto era del tutto inutile continuare a tenerlo in vita. Se vivo, in fondo, forse non è. I giudici inglesi, pur comprendendo l'opposizione dei genitori, hanno appoggiato la decisione dei medici a tutela “del miglior interesse del bambino”, si legge nella sentenza. L'atteggiamento della famiglia è definito comprensibile. Tuttavia Archie era in condizioni instabili per essere trasferito, la morte sarebbe potuta insorgere in modo incontrollato durante lo spostamento. Il trasferimento è stato pertanto negato.

Non abbiamo diritti sui nostri figli, si è espressa la madre fuori dall'ospedale. Non c'è niente di dignitoso su ciò che questa famiglia ha passato, hanno dichiarato fonti vicine alla famiglia.

Dove sta il confine tra giustizia, famiglia ed ospedali? In assenza di una comune legislazione europea o internazionale in materia di fine vita, casi come quello di Archie potrebbero purtroppo essere sempre più frequenti. I trattamenti sanitari sempre più efficaci e il continuo miglioramento della scienza medica e della tecnologia - che allungano l'aspettativa di vita anche con malattie neurologicamente invalidanti - portano inevitabilmente a prolungare vite che se ne sarebbero già andate, senza tutti questi accorgimenti sullo stato precario di salute di una persona. Inoltre ogni Stato decide in base alla propria legge. Il cambiamento che porta a legiferare in maniera univoca e diversa da quanto fatto sinora è un fatto dapprima culturale. Movimenti ed organizzazioni ci provano da anni, anche in Italia, a sensibilizzare l'opinione pubblica. La sensibilità sul problema non manca tra la gente ma i tempi della legge non sono maturi ovunque.

Rattrista che la vita passi attraverso la morte come una vicenda legale. Dovrebbe essere una inesorabile vicenda umana, strettamente e dolorosamente privata. Morire o non morire, vivere o non vivere, questo è il problema. E lo decide qualcun altro, in un'aula di tribunale o nelle corsie di un ospedale. Questa è la legge degli uomini. Che vuole essere giusta, pietosa, rispettosa. Si rende spesso necessario coinvolgere, anche in Italia, i comitati bioetici, per stabilire in equipe i confini dell'agire medico, capire insieme fin dove è lecito spingersi nel curare, definire quando è ora di lasciare andare. È materia delicata. La sostanza del dramma che coinvolge tante persone nelle condizioni di Archie Battersbee è uguale in ogni Paese del mondo, cambia il modo di affrontarla.

Prolungare anche di un giorno la vita di una persona, come garantire le cure adeguate e la miglior qualità di vita possibile, è la mission di ogni sanitario. Prolungare la vita in condizioni estreme ed avverse di malattia grave pone profondi interrogativi medici ed etici a cui è controverso trovare risposte che soddisfino tutte le coscienze e le intelligenze. È accettabile che ogni caso clinico ed umano, simile a quello di Archie, possa essere interpretato a seconda del pensiero comune in un posto e che possa essere legittimamente diverso in un altro in base alle credenze culturali e religiose e ai codici legislativi? La materia è talmente corposa che mettere d'accordo codici e coscienze sembra di difficile attuazione. Le condizioni di certe persone malate passano attraverso svariate convinzioni di certe persone sane. Non è il caso di Archie, che non poteva decidere per sé stesso per le condizioni e l'eta, ma forse non è sbagliato pensare che le persone hanno il diritto inalienabile di decidere come e quando morire, come lo hanno di vivere.

Chiedere qualche giorno in più per la vita di un figlio, per una madre non è sempre prolungare l'agonia. È amore estremo, fino alla fine, in condizioni estreme. Dopo averlo messo al mondo, come si fa a toglierlo volutamente dal mondo? Il cuore di mamma non ci riesce. Magari ci si rende conto che non è possibile un risveglio, si può capire quel che i medici intendono per situazione irreversibile. Si è talmente inebetiti dal dolore e con il cuore anestetizzato che un padre e una madre faticano ad accettare fino in fondo. Non si è mai pronti, tantomeno se è lo Stato con le sue leggi o la sua assenza di leggi ad imporlo, stabilendo che cosa è cosa giusta al posto tuo. In qualità di chi ne fa le veci.

In fondo è così bello, sembra che dorma. Ha la stessa espressione serena di quando era piccolo. È ancora qui, gli posso stringere la mano, accarezzare i capelli biondi. Portargli il suo peluche, quello con cui si addormentava. Forse ha freddo, la copertina patchwork all'uncinetto fa un po' casa nella stanza d'ospedale. Lo tiene al caldo. Mi posso sedere accanto a lui, guardarlo mentre dorme ed è nel suo mondo. Forse sente la mia voce. Posso aiutare le infermiere a lavarlo. Gli taglio le unghie dei piedi, glieli massaggio. I suoi piedi nudi mi stavano sul palmo di una mano, ora non stanno più nelle scarpe. Li metto i calzini. E poi sento ancora il suo profumo. E lui magari sente ancora il mio. Ogni bambino riconosce la mamma dall'odore. E ne sente la vicinanza, anche quando dorme. Sono qui, sto ancora un po'. Adesso vado. Torno domani. Ti prometto che ti riporto a casa.

Se Archie fosse mio figlio, parlare da soli così è tutto ciò che resta ad una mamma ad un capezzale.

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