L’uomo scompare e con esso l’umanità, l’empatia, la solidarietà, e resta l’obiettivo, la carriera, i bilanci e la gerarchizzazione della vita e delle vite in categorie: internati, rifugiati, schiavi, ribelli ed oppressori, parole che la Giornata della Memoria sottolinea per il loro peso storico e il loro tremendo portato di attualità, in un campo di sterminio ieri, o nei tanti luoghi di sofferenza, discriminazione e deportazione ancora oggi presenti.
Museo dell’olocausto Buenos Aires, viaggio tra le storie degli infermieri
Trovare a Buenos Aires un Museo dell’olocausto può sembrare un fatto un po’ inconsueto per uno stato extraeuropeo che non ha vissuto direttamente gli orrori della Seconda Guerra Mondiale. Eppure, non poche ragioni consentono una lettura del coinvolgimento stretto, del paese sudamericano, con la shoah.
In primo luogo, l’Argentina fu il porto di arrivo per molti nazisti in fuga. Un rifugio pagato a peso d’oro, funzionale a finanziare le campagne elettorali ed il welfare populista del governo di Juan Domingo Peron.
L’Argentina apriva quindi le porte ai camerati del Reich millenario decaduto, dopo averle chiuse però nel 1938 a circa 350.000 ebrei profughi dalla Germania e dall’Austria; mentre era ancora in corso la Conferenza di Evian, cui partecipavano 32 paesi, per stabilire una politica comune proprio nei confronti dei rifugiati ebrei.
La conferenza si concluse con un tragico nulla di fatto, come accade anche oggi in tema di rifugiati. Qualche anno più tardi, una sorta di rivincita, nei confronti dello stato argentino, verrà presa dagli agenti del Mossad israeliano con il rapimento di Adolf Eichmann, alto ufficiale nazista fra i principali responsabili della realizzazione della soluzione finale del problema “ebraico”; ed anche di quello slavo, omosessuale, rom, dei dissidenti politici, etc. Insomma, dell’eliminazione di tutti coloro che potevano essere considerati degli ausmerzen, dei sotto-uomini.
Hannah Arendt scriverà del processo Eichmann consegnando al sapere umano una chiave importante di lettura ai posteri per condannare qualsiasi politica di sterminio e sopraffazione: “La banalità del male”. Fin qui nulla di nuovo che non sia stato già detto o scritto rispetto alla Shoah, specie nella Giornata internazionale della memoria.
Eppure, il museo di Buenos Aires permette di cogliere ulteriori chiavi di comprensione e conoscenza attraverso i contesti e le figure, i personaggi ed i fatti presentati nella sua mostra storica; fra i quali, si ritrovano alcuni riferimenti alla professione infermieristica stessa, presentati lungo due antitetiche letture: quella dell’infermiera esempio di perfezione razziale e istituzionale e, al contrario, l’infermiera salvatrice di vite umane perseguitate.
Nel primo caso si vede, in una teca, il retro di copertina della rivista Nationalsozialistische Monaschefte del febbraio del 1940 in cui è raffigurata l’immagine di un’infermiera ariana a contorno delle tesi razziste esposte dai vari autori, facenti tutti capo al direttore della rivista Albert Rosenberg.
All’estremità opposta, su una grande parete interna del museo, dove sono riprodotti i volti di quelle decine e decine di donne e uomini – i Giusti tra le nazioni – che si prodigarono per salvare gli ebrei dalla morte nazista, si può ritrovare anche l’ovale minuto e sorridente di un’infermiera polacca e cattolica che salvò più di 2.500 bambini dal Ghetto di Varsavia: Irena Sendler. Una delle tante infermiere e dei tanti sanitari che si prodigarono contro gli orrori del nazismo.
Non sappiamo se costoro furono numericamente in misura maggiore o minore di quanti, sull’altra riva dell’Acheronte, si adoperarono con ogni mezzo per annientare, distruggere, cancellare, seviziare, umiliare ed uccidere. Il sospetto è che molti rimasero a guardare o si limitarono, in una esecrabile complicità passiva, ad eseguire gli ordini.
Simonetta Pagliai in un articolo di nove anni fa, in occasione della giornata della memoria, prese in esame il coinvolgimento di sanitari, in particolare dei medici, nelle politiche razziali e di eugenetica, nonché nello sterminio di massa perpetrato dalla Germania nazista.
Il ruolo dei sanitari nella Germania nazista
Va rilevato che l’adesione all’ideologia nazionalsocialista, nell’immediato primo dopoguerra, coinvolse i medici tedeschi in maniera molto accentuata rispetto ad altre professioni. La rivista professionale Deutsches Artzeblatt, nel 1933, celebrò l’ascesa al potere di Hitler, aderendo a pieno alle idee di eliminazione spirituale e culturale degli ebrei.
Si registra che nel 1942 il 50% di essi fosse iscritto al partito; e di questi il 7% arruolato nelle SS. Alcune delle più tragiche politiche di eugenetica furono non solo sostenute, ma avviate proprio da cattivi medici che, per tale ragione, divennero tristemente famosi.
Si possono ricordare Josef Mengele, il medico di Auschwitz che faceva esperimenti sui gemelli per i suoi studi di genetica. O Robert Ritter, medico responsabile del “Centro di ricerca per l’igiene razziale”, con attività in particolare rivolte contro i Rom.
C’è poi Peter Vaernet, medico danese delle SS che si era messo in testa di curare gli omosessuali con un rozzo apparecchio elettromedicale, inserito a livello inguinale, che dosava la somministrazione di testosterone.
I risultati di questo sadismo pseudo scientifico furono il produrre gravi lesioni, o addirittura la morte, in molti di coloro che furono costretti a sottoporsi al trattamento meccanico-ormonale. Vaernet fece i suoi esperimenti a Buchenwald dove un altro medico – Erwin Ding-Schuler – faceva esperimenti per lo studio del tifo petecchiale, provocando la morte di circa 200 internati.
Il ruolo dei sanitari nella Germania nazista va oltre l’universo concentrazionario e sfocia nell’eutanasia di stato, quella del programma Aktion T4, messo in opera a partire dal 1933, che mirava a eliminare disabili fisici, psichici e sociali, ritenuti pericolosamente “contaminanti” la purezza della razza ariana. Ufficiosamente Aktion T4 terminò nel 1941, ma in sostanza continuò fino alla caduta del regime.
Il programma nella realtà fu un criminale delirio istituzionale basato su teorie pseudoscientifiche e visioni distorte dell’eugenetica, tutte elaborate già negli ultimi anni del XIX secolo, e non solo in Germania. Si stima che le vittime di questa politica assassina di stato alla fine siano tra le 200 e le 275mila.
Insomma, che siano stati medici, infermieri, educatori, o inservienti, in tanti, direttamente o indirettamente, si adoperarono per “eseguire gli ordini” a scapito delle vite umane costrette all’interno di manicomi, orfanotrofi, ospedali.
Fu il proscenio della tragedia dei campi di sterminio che seguirono, espressione dell’organizzazione industriale della morte. Fra le tante storie che si possono raccontare a tale proposito significativo l’esempio dell’ospedale psichiatrico di Hadamar (in Assia) in cui amministratori e sanitari furono processati per aver causato la morte di circa 15.000 cittadini tedeschi e 476 internati polacchi e russi.
Fra questi si ricordano gli infermieri Heinrich Ruoff (1887 – 1946) e Karl Willing (1994 – 1946), giustiziati per i crimini commessi e la caposala Irmgard Huber (1901 -1983) che fu condannata a 25 anni, ma venne rilasciata nel 1952, nonostante fosse stata riconosciuta colpevole di aver somministrato dosi letali di sonniferi.
Un’altra caposala – Mina Wörle (1895 – 1973) – in servizio presso il complesso ospedaliero di Kaufbeuren – Irsee, fu ritenuta responsabile dell’eliminazione di non meno di 210 pazienti. L’ultimo in data 29 maggio 1945 (la guerra era finita da tre settimane).
La vittima si chiamava Richard Jenne ed aveva 4 anni. Mina venne condannata a 18 mesi di prigione, mentre il direttore sanitario, il dottor Valentin Faltlhauser, (inventore di una dieta affamante a base unicamente di rape rosse, quale lento strumento di eliminazione) subirà una condanna a tre anni. Bisogna ricordare inoltre che nello stesso complesso ospedaliero, ma presso l’ospedale di Irsee, trovò la morte il quattordicenne Ernest Lossa, figlio di genitori rom, la cui tragica vicenda ha inspirato un libro ed un film da cui è tratto il titolo di questo stesso articolo.
Capire l’operato dei sanitari
A questo punto si fanno strada una serie di interrogativi per capire l’operato dei sanitari, per valutare una professionalità distorta che ha riguardato non solo il singolo individuo, ma le organizzazioni professionali (laiche, religiose o di partito), il sistema sanitario stesso, le istituzioni, ed infine la dimensione scientifica (sarebbe meglio dire scientista) che legittimava nei fatti lo sterminio.
La risposta di molti criminali nazisti chiamati a rendere conto delle loro azioni è stata sempre quella vigliacca e inconsistente dell’aver eseguito gli ordini. Giustificazione ancor più rivendicata da infermiere e infermieri che si mascheravano dietro la gerarchia professionale, nei confronti di quadri sanitari e amministrativi, cui dovevano sottostare. Una scusante debole e senza valore rispetto a molti elementi.
Non assolve i sanitari che aderirono pienamente al nazismo e rivendicarono le loro azioni ideologicamente. Non si capisce poi come si debba giustificare chi “ubbidì agli ordini”, mentre in molti casi ci furono medici e infermieri che quegli stessi ordini li disattesero.
In questo si può ricordare la capo-infermiera delle SS, ad Auschwitz, Maria Stromberger, austriaca e nazista convinta, che però rifiutò la logica dello sterminio, salvò internati e collaborò con la resistenza del campo. Ed ancora la francese Violette Lecoq (a Ravensbruck?), e l’italiana Adele Zara (dove?).
Ci furono poi infermieri che provenivano dalle fila dei deportati essi stessi e che cercarono di mettere in salvo non solo sé stessi, ma anche i loro compagni come Karl Gorath, infermiere omosessuale internato a Neuengamme, o Taddeus Borowski (Birkenau), Gerda Hass e Jan Weis (Auschwitz).
Quest’ultimo, per non rivelare però la propria origine ebraica, non disse nulla quando un suo collega si accinse a fare una iniezione letale al suo stesso padre. L’elenco è molto lungo, ma spunti di riflessione debbono arrivare anche da chi si comportò in maniera criminale. Utile, in tal senso, la testimonianza dell’operato dei sanitari del campo femminile di Ravensbruck, dove internate e naziste svolsero il ruolo di infermiere nei vari locali adibiti ad uso sanitario, denominati revier.
Mentre le prime cercavano di sopravvivere e, quando possibile, di aiutare le altre internate, le infermiere naziste mostrarono chiaramente come il micro-mondo dei locali delle infermerie, specie in assenza di medici, si trasformavano in piccoli feudi personali dove esercitare potere, sopraffazione, sadismo e depredare ad ogni occasione, le internate dei loro averi. Molte di loro però, alla fine, pagarono per i crimini commessi. Molte altre invece riuscirono a salvarsi.
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