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Editoriale

Molte, troppe continuano a morire per mano maschile

di Giordano Cotichelli

Il 25 novembre è la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. L’associazione “Non una di meno” organizza per l’occorrenza, posticipata di un giorno, una manifestazione a Roma. La CGIL inaugurerà una panchina rossa, simbolo riconosciuto – al pari delle scarpe rosse - dell’impegno e della memoria da mantenere nella difesa delle donne. Quella di oggi è una data che rappresenta molto di più di una ricorrenza da festeggiare e, a dirlo, sono i molti fatti che, nelle immediate vicinanze, sottolineano la gravità del problema della violenza contro le donne.

Può bastare una sola giornata per pensare a tutto questo?

Il 25 novembre è la Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne.

L’ultima settimana di novembre si è aperta con la sentenza definitiva nei riguardi dei quattro responsabili della morte di Desirèe Mariottini, la sedicenne drogata, violentata e abbandonata agonizzante fino alla morte in un edificio fatiscente nel quartiere di San Lorenzo a Roma. Un orrendo fatto di cronaca accaduto quattro anni fa.

La Presidente del Consiglio ha commentato le condanne inflitte affermando che: Faremo di tutto per un’Italia più sicura. Dichiarazione politicamente puntuale che merita di essere valutata in concreto, cercando di capire che cosa si voglia intendere con il termine “tutto”.

Se significa prendere in considerazione un approccio globale alla questione della violenza di genere, sul piano economico, sociale, culturale e della rappresentanza politica, sicuramente sarà un compito molto arduo da assolvere. Un po’ come avere la consapevolezza che non basta l’intervento “curativo–repressivo” della legge e dell’ordine pubblico, ma c’è bisogno in realtà di molta prevenzione e molto sostegno alle fasce più a rischio.

Difficile lottare e sradicare un’idea violenta e machista che permea la cultura patriarcale e gerarchica su cui si fonda la società attuale. Difficile farlo sul piano economico, poi. Ed ancor più su quello politico. Il sospetto è che, oltre la demagogia, resti solo la repressione e la propaganda. Un po’ come quella mostrata dall’attuale Ministro delle infrastrutture che da Ministro dell’Interno, all’epoca della morte tragica di Desirèe, arrivò sul luogo del delitto ed incrociò le mani in una preghiera per un momento di raccoglimento. Il tutto sotto lo sguardo puntuale di fotografi, telecamere, media e social di ogni tipo.

Lunedì scorso c’è stato anche una sorta di omaggio sportivo arrivato dai campi di calcio del mondiale in Qatar. Per la precisione dall’incontro fra Inghilterra–Iran. Prima della partita i giocatori inglesi si sono inginocchiati, come da un po’ di tempo sono usi fare, in un atto di denuncia contro ogni tipo di discriminazione. Non sono riusciti a far giocare con la fascia arcobaleno il loro capitano.

La giornalista sportiva, ed ex-calciatrice, Ale Scott, però l’ha indossata e la fascia indossata o meno è stata argomento di discussione e denuncia, a sostegno delle donne, a sostegno della comunità LGBTQIA+, specie in un paese omofobo e patriarcale come il Qatar.

Più importante è stato il comportamento della squadra iraniana che non ha cantato l’inno nazionale, per protesta contro la repressione politica in corso e contro la persecuzione ormai ultra-quarantennale delle donne nel paese del pavone. Un po’ poco? L’eco del gesto sicuramente ha sortito i suoi effetti, ingigantita anche dalle tante bandiere e striscioni con i colori iraniani con su scritto: Women Life Freedom.

Certo non bastano piccoli atti di solidarietà e prese di posizioni varie, spesso individuali, ma intanto fanno sentire le donne meno sole anche se, molte, troppe, continuano a morire per mano maschile, di violenza di genere all’interno delle mura domestiche, nelle strade delle città del Nord come del Sud del mondo e sui posti di lavoro.

Pochi giorni fa tre donne sono state trovate morte assassinate a Roma. Erano straniere e prostitute, e forse per questo la violenza usata era… meno violenta? Nei luoghi che le hanno viste vivere per l’ultima volta non si è affacciato nessun Presidente del Consiglio, nessun Ministro, nessun politico di qualsiasi specie. Sono state uccise, sembra, da un maschio bianco, italiano, etero e cis; già tratto in arresto. E già sono state dimenticate.

Come detto, la violenza che uccide le donne è anche quella del lavoro, sempre più precario, sempre più sottopagato e privo di sicurezze. E torna la giurisprudenza a far sentire la propria voce rispetto alla sentenza emessa per la morte di Luana D’Orazio, mangiata viva da un macchinario in fabbrica a Prato nel 2021. Sentenza che non restituisce dignità al lavoro, giustizia alla famiglia, vita alla memoria. Se ne volete sapere di più, il web è lì per ogni approfondimento.

Anche se in queste righe verrebbe voglia di pubblicare i numeri delle morti bianche – figlie spesso di un lavoro tutto nero – e perdersi in statistiche in merito a istruzione, età, salute, e … genere; quei dati noti come i determinanti della salute e delle malattie. Ma l’attualità spesso ha il pregio di rappresentare la realtà delle cose molto meglio dei numeri, come nel caso della donna di cinquant’anni schiacciata in una fabbrica in provincia di Piacenza. Faceva il turno di notte e l’infortunio mortale è accaduto alle tre di notte.

La questione della violenza sulle donne è quindi decisamente complessa ed articolata, drammatica e molto difficile da esaurire in qualche migliaio di battute. Oppure no. Oppure in realtà è molto più semplice di quanto non appaia. Del resto, si è di fronte ad una specie animale dove una sua parte, appartenente ad un genere ben specifico, quello maschile, si sente legittimata a praticare qualsiasi forma di sopruso e violenza su altri rappresentanti della sua specie se appartenenti al genere femminile o, peggio, ad altre forme non ben definite e colpevolmente reclamate in qualche caso.

È la cultura della sopraffazione che si fa potere e vede, in molti signori del Palazzo, dare da sempre, puntualmente, il cattivo esempio. Su tutti, si può citare l’ex presidente del Brasile, Jair Bolsonaro che, quando era un deputato 59enne, apostrofò una sua collega, Maria do Rosario Nunes, deputata di sinistra, dicendole che era troppo brutta per essere violentata. E questo accadde in un paese in cui la libertà di avere una maternità scelta e partecipata, se si preferisce il diritto all’interruzione di gravidanza, non è riconosciuto se non nei casi di violenza. E non senza difficoltà. Come il caso della ragazzina di 11 anni violentata cui in un primo momento era stato negato il diritto all’aborto, riconosciuto poi solo dietro una coraggiosa ed importante campagna stampa fatta da giornalisti che però poi sono stati indagati dalle autorità.

Insomma, l’oggetto che attira tanta crudeltà è lo stesso corpo delle donne su cui si costruiscono consensi elettorali di vario tipo, narrazioni tossiche e leggi vigliacche. Si pensi alla negazione del diritto d’aborto avvenuta di recente in molti stati degli USA. Ogni occasione è buona per smembrare i diritti delle donne, e di tutte le persone deboli, umili, fragili.

Se l’Italia non è il Brasile, in quanto ancora (si passi il provocatorio avverbio di tempo) l’IVG è tutelata da una legge, la morale, lo spessore culturale e professionale dei tanti sanitari che scelgono di obiettare, rendendo la vita impossibile a molte donne, quanto possono essere considerati distanti dal Bolsonaro-pensiero? Del resto, siamo il paese in cui una volta, un Presidente del Consiglio, ora senatore, ha definito una sua collega straniera come una culona inchiavabile.

Insomma, se c’è molto da fare, è vero anche che tanto lavoro ad oggi è stato fatto in un percorso da cui trarre esempio. Proprio lunedì scorso un altro avvenimento, degno di nota per i diritti delle donne, va ricordato: quello della morte di Hebe Pastor De Bonafini, fondatrice delle Madri di Plaza de Mayo, scomparsa all’età di 93 anni, dopo aver lottato per quasi mezzo secolo per rendere giustizia ai tanti desaparecidos – oltre 30.000 – vittime dei crimini di sette anni di dittatura militare. Fra i tanti desaparecidos c’erano donne, ragazze incinte, giovani stuprate, madri che hanno partorito nelle camere di tortura dell’ESMA, per poi venir uccise e dare in adozione i figli in molti casi alle famiglie dei loro stessi assassini.

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Commenti (1)

Ferrari M. Cristina

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1 commenti

la violenza può essere anche verbale

#1

Scrivo alla redazione riguardo all'articolo di Giordano Cotichelli pubblicato il 25-11-2022 dal titolo "molte, troppe, continuano a morire per mano maschile". Nel passaggio in cui mette a confronto Italia e Brasile riguardo al diritto della donna all'interruzione volontaria di gravidanza afferma che la morale, lo spessore culturale e professionale dei tanti sanitari che scelgono di obiettare, rendendo la vita impossibile a molte donne possano essere considerati alla pari del Bolsonaro-pensiero.
Nella giornata contro la violenza alle donne molti hanno sottolineato che la violenza non è solo fisica ma anche verbale. Avverto queste parole dell'articolo come offensive verso coloro che come obiettori hanno il diritto di opporsi. E' lecito affermare che è così grande il valore di una vita umana, ed è così inalienabile il diritto alla vita del bambino innocente che cresce in sua madre che in nessun modo è possibile presentare come un diritto sul proprio corpo la possibilità di prendere decisioni nei confronti di tale vita, che è un fine in se stessa e che non può mai essere oggetto di dominio da parte di un altro essere umano.