La notizia è dei giorni scorsi. Un infermiere, Leonardo Baños Carmona, è morto per Covid all’età di 47 anni. Leonardo era un paziente a rischio in quanto portatore di gravi patologie - diabete ed ipertensione - e per il suo (nostro) stesso lavoro, che lo esponeva in misura molto maggiore, rispetto a tanti, al contagio da Sars-CoV-2. Inoltre, come se non bastasse, le situazioni pericolose Leonardo se le andava a cercare, dato che faceva parte della Brigata “Henry Reeve”, contingente sanitario cubano creato per portare soccorso in situazioni di disastri naturali: terremoti, inondazioni, epidemie, etc. In organico alla brigata Leonardo era stato in Sierra Leone per assistere i contagiati dal virus Ebola. Successivamente aveva fatto parte del gruppo che, nel momento più drammatico della pandemia in Italia – marzo del 2020 - aveva portato il suo contributo ai colleghi di Torino. Qualche settimana fa un altro componente della brigata è morto per Covid-19: il medico Graciliano Diaz Bartolo. Il cordoglio per la loro scomparsa e la riconoscenza per il lavoro di solidarietà offerto, non solo nel nostro paese, possono aiutare, oltre i rituali dovuti, a leggere meglio l’attualità del momento.
Morto di Covid uno degli infermieri cubani che aiutò Torino ad inizio pandemia
In questi casi il rischio di fare della semplice retorica è alto. Ma è giusto affrontarlo per una buona causa, quella che non riguarda solo la narrazione delle vittime del Covid, ma si apre in un abbraccio verso tutti coloro che soccombono sul lavoro, o meglio, per colpa del lavoro.
Al momento in cui si scrive i media hanno sottolineato il fatto che tra il 28 e il 29 settembre ben dieci sono state le vittime sul lavoro in Italia, quasi ripartite in maniera uniforme fra Nord e Sud con una prevalenza delle vittime nel settore dell’edilizia e dell’agricoltura.
Dieci morti sul lavoro in 24 ore sono denuncia, l’ennesima, sulle gravi condizioni in cui in questo paese si è costretti a guadagnarsi da vivere. Denuncia politica, ma che non trova risposte concrete dalla politica di Palazzo, troppo presa in una campagna elettorale permanente pronta a blaterare contro il reddito di cittadinanza e il salario minimo, distratta però sul fatto che la riforma della previdenza porterà sempre più persone a restare imprigionate da un lavoro che riusciranno sempre meno a sostenere, a gestire o, come suggeriscono i tragici fatti di questi giorni, da cui salvarsi.
Allo stato attuale basterebbe anche un minimo di solidarietà istituzionale, che cerca di concretizzarsi in maggiori misure di sicurezza, per poter porre un certo freno ai morti sul lavoro. Solidarietà, come quella mostrata dal personale sanitario cubano – e presto dimenticata – o quella costruita da parte di tanti altri sanitari durante questa pandemia. Sì, solidarietà; la stessa che ha fatto scavare rabbiosamente con le mani tra le macerie che hanno seppellito, dopo un crollo, Benito, muratore di Mesagne; una delle dieci vittime cui si è accennato. Ma in questo paese, probabilmente, la solidarietà passa solo per i gesti disperati, e non attraverso i disegni di legge, e men che meno tra i profili di social media divenuti, in troppi casi, bacheca (dis)informativa principale che conduce all’unica condivisione riconosciuta: quella da fare con il tasto destro del mouse.
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