Riconoscere in un codice deontologico che "il tempo di relazione è tempo di cura" è un passo epocale. Sono felice. Sono una paziente e il mio è un punto di vista interessato. Ma credo che si sia fatto un gran passo avanti. E non solo per il malato. Credo che dare ufficialità anche a questo strumento sia riconoscere non solo l’importanza dell’ascolto per arrivare ad una più giusta diagnosi finale, ma anche permettere all’infermiere stesso di riappropriarsi, in un momento in cui le capacità tecniche e scientifiche hanno sempre più aumentato il suo bagaglio culturale, di quel ruolo che gli è sempre stato proprio: la stretta vicinanza con la persona sofferente. Riconoscere questo è un atto epocale in un tempo in cui il corpo è sempre e solo il protagonista, anche nella malattia, purtroppo. Significa che noi pazienti saremo un po’ meno soli. Significa che anche gli organi di competenza dovranno prendere atto di questo. Dovranno non solo richiedere statistiche e relazioni, ma dare spazi e tempi diversi. Dare possibilità diverse. Mi auguro solo una cosa: che questa relazione di Cura possa essere un aiuto reciproco.
Nuovo Codice Deontologico degli infermieri visto da una paziente
Da paziente sono portata a “vedere” e “sentire” solo i problemi legati al mio stato di salute e ai vari percorsi che ho fatto, faccio e farò all’interno di un luogo di cura. Da paziente cerco di capire cosa voglio, vorrei, mi piacerebbe incontrare, sentirmi dire, trovare all’interno di un ambulatorio come in un ospedale.
Da paziente, ancora, vorrei sempre sentirmi accolta, ascoltata, considerata. Solo così mi sentirei davvero aiutata.
Da paziente, invece, all’interno di un qualsiasi luogo di cura, mi sento solo manipolata, scrutata, parcellizzata per essere alla fine guarita. Da paziente spero, voglio e vorrei che sempre fosse espletata questa idea di venire guarita. Ma mi piacerebbe anche altro.
Mi piacerebbe anche essere curata.
Ed ecco che ieri, fra le tante notizie che come sempre mi trovo a leggere, mi è saltato all’occhio il nuovo Codice Deontologico degli Infermieri. Solo pochi anni fa avrei saltata la notizia a piè pari. Non mi sarebbe interessato. Ero ancora una cittadina sana, senza nessun problema. E come la maggior parte delle persone davo la priorità a tutto quello che in quel momento erano i miei interessi: la pittura, l’arte, la musica, la scrittura, i viaggi e, logicamente, la mia famiglia.
Poi è arrivato quello che io ho sempre chiamato “il mio inciampo”. L’incontro con il cancro. L’incontro con il dolore e la sofferenza. L’incontro con un mondo che non conoscevo, anzi, di più: che non sospettavo esistesse.
E non parlo solo della grande quantità di personaggi che come me arrancavano all’interno del pianeta sanità per sopravvivere. No. Non intendo solo la vicinanza di questi miei compagni di viaggio in questa mia nuova e difficile vita.
Parlo e voglio parlare della conoscenza (non in senso lato) di tutte quelle figure che via via si alternavano al mio capezzale, dentro ad un ambulatorio, al di là di una scrivania o all’interno di una reception.
Pian piano quelle figure non sono più state ai miei occhi delle anonime divise bianche, profilate di blu, celesti, verdi, con o senza mascherine. Con o senza strumentazioni a seguito.
Hanno iniziato ad avere un volto, un sorriso, due occhi, una voce. Pian piano hanno rotto la mia diffidenza. Hanno accolto il mio dolore. Hanno accarezzato la mia sofferenza.
Mi hanno presa per mano con serenità dandomi una ragione in più per non mollare, per accettare terapie devastanti, per non permettermi più di scivolare verso un fondo nero senza fine.
Mi hanno ascoltata anche quando non parlavo. Hanno dato voce a silenzi voluti, imposti da una educazione rigida. Silenzi di pudore. Silenzi che facevano comunque rumore.
E io mi sono sentita curata.
Non si alternavano più al mio letto per guarirmi. Anche. Mi avvicinavano per curarmi. Anche se dovevano farlo espletando un altro compito. Come se fosse una “cosa, un atto da fare di nascosto”.
Ma mi bastavano poche parole, quei sorrisi, quel chiedermi educatamente anche una piccola e sciocca cosa per portarmi fuori da quella stanza. Per non farmi sentire solo un caso o una malattia. Per farmi sentire ancora Lucia. Quella Lucia “persa” mesi prima in un mondo che non avrei mai più potuto avere.
Leggendo il nuovo Codice Deontologico mi si è allargato il cuore
Ecco. Leggendo il nuovo Codice Deontologico degli infermieri mi si è allargato il cuore. Perché io da quella volta, da quei mesi pieni solo di dolore e di lacrime e di speranze che nascevano e morivano nel breve tempo di ore travagliate, di strada ne ho fatta.
Grazie alla loro Cura ho ripreso per mano Lucia e ho riaperto gli occhi, tirato fuori la testa dalla sabbia della paura, guardato in faccia la mia realtà legandola, però, alla loro di realtà.
E una domanda mi era sempre martellata in testa, anzi due.
Per noi pazienti l’Infermiere è, come lo è sempre stato, quel trattino d’unione fra noi, il medico e il nostro stare bene.
All’Infermiere noi pazienti, persone ammalate (e mi permetto di parlare al plurale senza paura di essere smentita) ci rivolgiamo sempre e comunque.
Sono loro che sempre ci accolgono, ci ascoltano, ci mettono a nostro agio, ci consolano, ci somministrano terapie, ci incoraggiano, ci avvolgono con il loro sapere, competenza, sensibilità.
Il medico, purtroppo, resta spesso lontano. Resta tecnico e sbrigativo. Non per colpa sempre loro, per carità! Spesso per atteggiamento? Per ruolo? Perché non ha quel “maledetto” tempo intorno al quale tutto ultimamente ruota? O perché non ha risposte? Di fatto il dialogo è sbrigativo e mirato al malessere evidente.
Ebbene, leggere “art. IV: Relazione di cura”, mi ha fatto fare un sobbalzo.
Il tempo di relazione è tempo di cura
Relazione di cura. Quella che noi, dall’altra parte, cerchiamo sempre. Vogliamo sempre. Agogniamo sempre!
E allora lo leggo e rileggo:
Nell’agire professionale l’infermiere stabilisce una relazione di cura utilizzando anche l’ascolto e il dialogo. (…) Il tempo di relazione è Tempo di cura
Sono felice. Certo il mio è un punto di vista interessato. Ma credo che si sia fatto un gran passo avanti. E non solo per il malato.
Credo che dare ufficialità anche a questo strumento sia riconoscere non solo l’importanza dell’ascolto per arrivare ad una più giusta diagnosi finale, ma anche permettere all’infermiere stesso di riappropriarsi, in un momento in cui le capacità tecniche e scientifiche hanno sempre più aumentato il suo bagaglio culturale, di quel ruolo che gli è sempre stato proprio: la stretta vicinanza con la persona sofferente.
Vicinanza che gli ha da sempre permesso di entrare in quella sfera personale ed intima che, invece, viene (volutamente? Voglio pensare che non sia così) ignorata dalla maggior parte degli operatori sanitari.
Ma, soprattutto, significa dare il giusto valore ad un “lavoro psicologico” che da sempre l’infermiere fa. Senza sbandieramenti, ma con grandi difficoltà organizzative: ascoltare e dialogare con chi ha in quel momento davanti.
Che è una persona spesso arrabbiata, insofferente, impaurita, ansiosa… semplicemente ammalata. E allora penso che se l’infermiere è, come viene ufficialmente definito, quel “professionista sanitario che agisce in modo consapevole, autonomo e responsabile perché sostenuto da valori e saperi scientifici” era giunto il momento di riconoscergli anche questo ruolo che, di fatto, ha sempre svolto.
Riconoscergli quell’atto di Cura che va oltre. Va, sicuramente, al di là del puro atto di ricerca della guarigione fisica.
Riconoscere questo è un atto epocale in un tempo in cui il corpo è sempre e solo il protagonista, anche nella malattia, purtroppo. Significa che noi pazienti saremo un po’ meno soli. Ci sarà chi potrà ascoltarci senza fingere di dover fare altro intorno al nostro letto.
Significa che anche gli organi di competenza dovranno prendere atto di questo. Dovranno non solo richiedere statistiche e relazioni, ma dare spazi e tempi diversi. Dare possibilità diverse. Perché, come dico sempre io, “siano corpo, ma anche cuore e anima”.
E se non si capirà ancora che bisogna iniziare a prendere tutto il “pacchetto”, si rischierà un continuo fallimento. Una guarigione a metà. Con nel mezzo incomprensioni, denunce, malumori causati dalla cattiva relazione fra le parti.
E ancora credo che si dovrebbe iniziare ad informare il cittadino finché è ancora sano. Far crescere una nuova coscienza. Far sapere che qualcosa sta cambiando, in quanto anche chi per primi incontriamo, quando entriamo in un luogo di cura, lo hanno fortemente voluto.
Far sapere che quelle necessità che noi, ammalati, da tanto, da sempre chiediamo, loro, gli infermieri lo hanno sudatamente preteso e scritto nel loro nuovo Codice Deontologico datato 13 aprile 2019.
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