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Editoriale

Infermiere e campioni

di Giordano Cotichelli

La 32° edizione dei moderni giochi olimpici si è conclusa. Il risultato generale per la rappresentanza italiana è stato eccellente: 10 ori, 10 argenti e 20 bronzi. Conteggiando gli ori è stato conquistato il decimo posto, che scende al settimo se si guarda al totale delle medagli vinte; il più alto raggiunto fino ad oggi. Tutte considerazioni già fatte, anche se qualcosa di ulteriore si può aggiungere, e proprio a partire da alcune medaglie inedite per le tradizioni sportive italiane come quella dei 100 m. vinta da Jacobs o della staffetta 4 x 100 sempre con Jacobs assieme a Patta, Desalu, e Tortu. Va rilevato inoltre, sia fra i medagliati, sia all’interno della rappresentanza olimpica stessa, molti atleti e atlete figlie di famiglie di recente acquisizione per il paese.

Essere stranieri e figli di infermieri porta bene

Le medaglie olimpiche di Tokio

Qualcuno userebbe la parola straniere, ma personalmente considero che il termine vada speso per i sentimenti di umanità e solidarietà alieni per chi ama le categorizzazioni umane. Inoltre, oltre l’origine nazionale, c’è quella legata allo status socio-economico familiare, dove non mancano le storie un po’ da feuilleton romantico di fine ‘800, ma dannatamente reali e crudeli che raccontano di figli di ragazze madri, abbandonati dai papà, in condizioni di reddito non brillanti. Storie di sportivi che parlano di infanzie e adolescenze per niente facili cove la voglia di riscatto sociale ha fatto da catalizzatore alla preparazione atletica. E in qualche caso la mamma era pure infermiera o “quasi”, come nel caso di Paola Egonu, pallavolista veneta e alfiere della cerimonia di apertura già si è detto, ma va ricordato anche il lavoro, duro, di badante svolto dalla mamma di Desalu.

Detto fra noi essere campioni e figli di infermiere non è poi una novità per il nostro paese. È il caso del CT della nazionale di calcio, vincitrice degli europei di quest’anno. Insomma essere stranieri e figli di infermieri porta bene? Beh, non è poi così automatico, ma delinea un quadro che deve attirare l’attenzione in termini di mobilità sociale in un paese, come l’Italia, dove questa è pari a zero.

Un dato non comune solo al bel paese, anche ad altri, come nel caso, ad esempio degli Stati Uniti. In questo c’è una storia decisamente emblematica, che è bene ritrovare. Quella del primatista del salto in lungo Robert Beamon a Città del Messico, nel 1968. Figlio di un’infermiera, Naomi, che morirà di tubercolosi otto mesi dopo la nascita di Robert che, sembra, fosse in realtà figlio illegittimo di un medico e non del padre “legale” che di mestiere faceva l’ospite delle patrie galere a periodi alterni. Beamon vincerà la sua battaglia umana, sportiva e politica. Stringerà il pugno chiuso della lotta per l’emancipazione dei neri, come fecero anche nella stessa olimpiade Tommy Smith e John Carlos, con l’aiuto anche dell’australiano Peter Norman. Figli di una tradizione di riscatto sociale veicolato dallo sport che partiva da Jessie Owens vincitore di “colore” nelle olimpiadi della Berlino nazista del 1936. Certo il podio è il luogo dove per un attimo il cono di luce della storia getta il suo sguardo e approfittarne in nome degli oppressi non è mai sbagliato. Vedi i casi citati e quello delle braccia messe ad “X” dalla lanciatrice del peso statunitense Raven Saunders, in omaggio alla comunità LGBTQ+ e non solo. Oppure i diversi di coming out fatti da alcune atlete o anche la denuncia della propria sofferenza mentale nel combattere i “mostri” che stanno nella testa, i twisties raccontati dalla ginnasta statunitense Simone Biles, che ha denunciato anche di aver subito molestie sessuali dall’ex-medico della squadra USA.

Alla fine queste olimpiadi hanno dimostrato di essere forse più di molte altre edizioni il lato umano dello sport, dove gli eroi della bandiera con i cinque cerchi, pur essendo muscolosi, non amano le società muscolari, scegliendo a volte di andarsene via, come ha fatto la bielorussa Krystina Tsimanouskaya.

Poteva essere altrimenti in un’edizione unica e drammatica come quella appena conclusasi con lo scenario della pandemia incombente? Si, poteva essere cattiva, altezzosa, imperiosa e stupida, negazionista e antivaccinista, come molte proteste che solcano i paesi degli atleti che stanno rientrando a casa. Sì, poteva essere l’Olimpiade degli egoismi meschini dei piccoli eroi. Invece non lo sono state e, probabilmente, ha contribuito anche l’immagine dell’atleta inglese che per rompere la tensione della gara, passava il tempo facendo l’uncinetto. Ce ne fossero di uomini che per combattere la competitività delle brutte situazioni si mettono a lavorare a maglia. E ci fossero anche più occasioni per aiutare la mobilità sociale, per ridurre la stratificazione di classe (personalmente preferisco cancellarla), senza dover ricorrere unicamente allo sport.

In chiusura, dato che si è iniziato con la relazione fra campioni e infermieri, un ultimo aneddoto professionale merita di essere riportato. La storia è quella dell’involontario rapimento di Stan Vickers, maratoneta britannico a Roma nel 1960. Questi ad un certo punto della marcia si stese in terra stremato, e per tale ragione scambiato per un malato grave da due infermieri – o portantini, o militi di un ambulanza, fate voi – in servizio a bordo pista. Lo caricarono sull’ambulanza e lo portarono in ospedale, dove fu ritrovato poco dopo dai suoi compagni di squadra che temevano fosse occorso qualcosa di grave. Insomma, qualche volta, gli infermieri oltre che assistere i campioni, nutrirli, educarli li hanno anche involontariamente rapiti.

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