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Editoriale

Un 2023 come tutti gli altri

di Giordano Cotichelli

Quelli della notte ti stanno facendo il riassunto delle otto ore passate, ma tu pensi solo al caffè da bere prima di cominciare. Ci vuole. Fare il mattino il primo dell’anno, dopo la notte passata a festeggiare, è meno facile di quanto pensavi. Già le senti lunghissime le prossime ore che ti separano dalla fine del turno, in particolare poi finché quelli della notte non se ne saranno andati via. Continuano a parlare. E quello che è stato male, e quell’altro pure. E lo spumante di mezzanotte che, appena stappato, è suonato un campanello. E quello che si è ricoverato con la solita mano spappolata da un petardo, con il solito infarto, con il solito coma etilico che, prima di perdere i sensi, si è vomitato fuori tutto il vino bevuto, insieme anche ad un bel pezzo d’anima. O almeno, quel poco che ne restava. Le ultime raccomandazioni. Sì, sì dai. Chi è stato male, chi è stato peggio e il primario che ha telefonato per fare gli auguri a tutti. Che carino! Chissà quanto sarà stato difficile in mezzo a tutta quella confusione di botti e festeggiamenti che ci saranno stati lì a Cortina, o Saint Moritz o a Gstaad.

Capodanno 2023: l’importante è restare vivi e non diventare cattivi

Il 2023 sarà un buon anno? Basta rimuginarci sopra e farsi il cattivo sangue. Non servono a restare vivi e a non diventare cattivi. Forse serve altro.

Sì, sì vabbè ciao, ciao! Buon anno a Voi. E alla fine se ne sono andati. Bene, andiamo a farci ‘sto caffè che sennò chi si sveglia.

Già è dura solo restare seduti in attesa che la moka faccia sentire il suo fischio di partenza. Almeno un paio di ore di sonno le potevi rubare. Ma no.

Ti sei perso con gli altri in giro per le vie rincoglionite del centro mentre andavi – o stavi tornando - dalla piazza dove tutti hanno reso omaggio al nuovo anno. Co’ sto freddo poi!

Sto caffè? Ci vorrebbe una sigaretta intanto, ma come si fa, manco per sentire gli altri. Le ramanzine salutiste e amministrative se le ascolti al primo dell’anno le senti per tutto l’anno. Lo sai che non si fuma in servizio. E manco fuori! Fa bene il governo ad aver aumentato le sigarette così smettete tutti! Già, tutti bravi a far cassa sugli ultimi.

La cucina è uno scenario post-bellico. Ci saranno almeno tre panettoni e altrettanti pandori iniziati e richiusi alla bell’e meglio. Il tronchetto di Natale grida vendetta da almeno quattro giorni. Non piace a nessuno e continuano a portarlo. E continuano ad aprirlo. I torroncini sono finiti già da un pezzo e resta solo il blocco di torrone bianco al marmo di Carrara che forse verrà preso d’assalto la prossima settimana.

Alla fine il caffè arriva. Nero, caldo, ricco d’aroma e di sicurezze. Fosse così anche quest’anno appena iniziato. Magari nero solo per il colore della pelle, che già c’è quello del governo che basta e avanza. Mhmm, sembra sortire un buon effetto l’amaro in bocca delle prime gocce di una caffeina che sa di caffettiera che non viene pulita da anni perché, come qualcuno ha detto, così è meglio.

Certo ci vorrebbe il caffè americano, quello lungo, che duri almeno venti minuti a prenderlo. Questo italiano qua, con due sorsi hai fatto. Latte? No, no per carità. Con quello che ci siamo bevuti e mangiati stanotte. In frigo ce ne dovrebbe essere un goccio. Ecco, sì, il frigo di reparto. Ci sono almeno un paio di vassoi di cartone stretti in un abbraccio sessuale dove l’ultimo angolo di una Sacher sovrasta i resti di un sandwich al tonno e tre mini panini al salame. Un bombolone alla crema è ancora lì da Natale. Da una parte ci sono pure le lenticchie. In due versioni diverse: quelle piccanti e vegan, e le altre con colesterolo e zampone. No, io sto bene così. A mezzogiorno le mangi te! Tanto di soldi non ce ne sono lo stesso, con o senza lenticchie.

Esco fuori sulle scale antincendio. Mi ci vuole una paja, poi col freddo di fuori e un po’ di nicotina in corpo, sarà più facile cominciare. Il sole comincia a colorare di giallo il paesaggio. Si gela, ma il cielo è sereno. Da qui si vede mezza città, quella che, alla fine, se n’è andata a dormire. L’altra metà, quella che invece è andata al lavoro, ha continuato a lavorare e continua a farlo, non si vede. Quella non ha festeggiato, e non festeggia mai, troppo presa a far andare il motore di questo grande mondo.

Il rumore, se ci fai attenzione, quasi lo senti, ma la sala macchine, le caldaie con i suoi macchinisti dannati della terra, quelli non li vedi certo. Stanno giù, in basso, lontano dagli sguardi, lontano da tutti. Le scale di ferro scendono giù, sempre più giù, dove i raggi del sole non arrivano, dove il cuore del mondo è stretto nell’abisso della parte più oscura e buia della grande barca. Lì ci sono solo fumi e rumori, sudori e grida spezzate.

Le luminarie di questo nuovo anno non ci arrivano. Gli auguri di capodanno si perdono nel clangore delle catene e delle ruote dentate di una schiavitù infinita, di un’umanità che puzza del sudore rancido del lavoro che i tanti profumi delle feste non sono mai riusciti a coprire. E poi, da qualche parte, laggiù, sempre laggiù, forse un po’ prima del fondo, si sentono anche i mille ticchettii di tantissime tastiere che computano ore, giorni, anni di vita. Tic, tic, tic moltiplicato per mille milioni di volte. Tic, tic, tic e non senti altro. Tic, tic, tic; è il battito dei monitor della terapia intensiva di questo mondo.

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