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Violenza verso gli infermieri, fenomeno da non sottovalutare

di Sara Di Santo

La violenza nei confronti di operatori sanitari è un fenomeno di rilevanza mondiale. Gli infermieri, in particolare quelli di pronto soccorso, risultano tra i lavoratori più esposti. In Italia, dove il fenomeno è presente, ma ancora poco studiato nello specifico, sono stati pubblicati i risultati dello studio nazionale "Indagine Nazionale 2016 sulla Violenza verso gli infermieri di Pronto Soccorso", una survey per quantificare il problema e per delineare strategie di intervento.

Infermieri e fenomeno violenza sul lavoro

La violenza nei confronti degli operatori sanitari è un fenomeno di rilevanza mondiale per dimensioni e gravità. Circa la metà degli eventi aggressivi sul lavoro colpisce gli operatori sanitari, soprattutto gli infermieri e, fra loro, quelli che operano in ambito psichiatrico e in pronto soccorso, in particolar modo quelli impegnati al triage.

Negli Stati Uniti nel 2015 si sono registrati 756 omicidi sul posto di lavoro: la metà di questi riguardavano infermieri.

In Italia il fenomeno è diffuso e molto presente, ma prima di oggi non erano disponibili fonti statistiche in grado di delineare un quadro dettagliato del fenomeno nel contesto specifico del PS, se non lo studio di Becattini, Bambi, Palazzi e Lumini pubblicato nel 2007.

Da tale studio, che ha interessato 14 regioni italiane, era emerso che il 95% degli infermieri ha assistito ad aggressioni nei confronti di colleghi, il 90% ha subito aggressioni verbali, il 35% ha subito atti di violenza fisica e il 52% ne è stato testimone.

Sono questi i dati dai quali è ripartito Nicola Ramacciati - Infermiere Coordinatore presso l’Azienda Ospedaliera di Perugia e Dottorando di Ricerca in Scienze Cliniche-Scienze Infermieristiche presso l’Università degli Studi di Firenze - con una survey nazionale rivolta agli infermieri di tutti i Pronto soccorso italiani, i quali, compilando un questionario anonimo, hanno restituito uno spaccato significativo di questo fenomeno e descritto i fattori che si pensano implicati in esso.

Ramacciati - insieme ai colleghi Stefano Bambi, Andrea Mezzetti, Enrico Lumini, Alessio Gili e Laura Rasero, con la collaborazione dell’Università di Firenze in partnership con l’Associazione Nazionale Infermieri di Area Critica (Aniarti) – ha sviluppato il questionario per l’Indagine Nazionale 2016 sulla violenza verso gli infermieri di Pronto Soccorso con l’obiettivo di restituire una fotografia che illustri l’entità del fenomeno e, al contempo, di incrociare i dati riguardanti fattori di rischio, modelli organizzativi e capacità degli infermieri di gestire una relazione conflittuale, al fine di pianificare strategie di intervento.

Infermieri assuefatti: chi entra in servizio sa che riceverà aggressione

In Italia, dal 2006 gli “atti di violenza a danno degli operatori sanitari” sono considerati dal Ministero della Salute un evento sentinella; da allora, il Sistema Nazionale di Monitoraggio degli Errori in Sanità (SIMES) ha ricevuto 165 segnalazioni di cui 4 hanno visto il decesso dell’operatore.

La lettura progressiva dei report pubblicati fino al 2016 dal Ministero mostrava che le segnalazioni per gli Atti di Violenza verso gli Operatori Sanitari giunte all’Osservatorio a partire dal 2006 fino all’ultimo report disponibile, sono state rispettivamente pari al 2,9%, 5,5%, 9,02% e 8,6% del totale degli eventi sentinella segnalati al SIMES.

Gli stessi report, tuttavia, ribadivano che le informazioni raccolte non hanno significato epidemiologico e non rappresentano dati di incidenza degli eventi sentinella.

Questo anche per via del fenomeno della sotto-segnalazione delle aggressioni (under-reporting) - spiega Ramacciati, intervistato in occasione del 35° Congresso Nazionale Aniarti – un fenomeno dalla portata molto elevata, il quale associa al concetto di aggressione sul posto di lavoro quello di “part of job”, parte del lavoro.

Per gli infermieri di pronto soccorso, dunque, le aggressioni fanno parte del proprio lavoro. È scattato un meccanismo di assuefazione tale per cui chi entra in servizio sa già che riceverà un’aggressione, verbale, psicologica o fisica che sia.

Circa il 99% degli infermieri che fino ad ora hanno risposto al questionario sono stati testimoni di episodi di violenza nei confronti di colleghi, mentre quasi il 92% sono stati vittime di violenza verbale, fisica o di entrambe.

Gli infermieri non segnalano, perché si sentono soli, abbandonati

Nonostante vi siano gli strumenti per segnalare eventi come questi, gli infermieri troppo spesso non lo fanno, perché troppo spesso le istituzioni non mettono in campo soluzioni adeguate e l’infermiere si trova da solo ad elaborare e gestire questo tragico vissuto, che fa vittime a livello psicologico, con burnout o stress lavoro correlato, ma anche a livello di lesioni fisiche molto importanti.

Un fenomeno da affrontare su più livelli

La complessità del fenomeno della violenza verso gli operatori di PS – spiega Ramacciati – è tale che necessita di essere osservata da molteplici punti di vista, analizzata con metodiche quantitative, ma anche qualitative e che va affrontata con interventi su più livelli.

Ancora oggi non esistono evidenze scientifiche su interventi correttivi che vengono posti in atto per minimizzare e gestire il fenomeno della violenza sul lavoro. Gli interventi, laddove studiati scientificamente, sono stati messi in atto in ambienti molto piccoli e i risultati ottenuti non sono sempre statisticamente rilevanti e, soprattutto, non sono generalizzabili.

Inoltre, studi condotti sugli effetti di politiche di “tolleranza zero”, attraverso le quali le Aziende - sia negli Stati Uniti che in alcuni Paesi europei - dichiarano agli utenti che in un determinato servizio non vengono tollerati episodi di violenza, né verbale, né tantomeno fisica, dimostrano che concentrarsi solo su un aspetto non è sufficiente a comprimere in maniera sensibile il fenomeno violenza.

Si tratta di un fenomeno che deve essere corretto con interventi all’interno delle aziende, sulla formazione, con le forze dell’ordine, con le agenzie di sicurezza interna agli ospedali, ma anche con un nuovo patto che si può stringere con il cittadino: perché l’infermiere non veda l’utente come un aggressore, ma come una persona da poter assistere e, viceversa, che il cittadino non veda nell’infermiere un ostacolo al raggiungimento del suo obiettivo salute.

Quali strategie per il futuro?

Altro territorio inesplorato è il fenomeno delle aggressioni agli operatori sanitari anche in altri contesti della salute, come in tutte le degenze o sul territorio; forse meno eclatanti, non sempre fisiche, ma sottili, continue ed erosive della volontà di garantire un’assistenza di qualità, andando ad intaccare gli aspetti motivazionali degli operatori.

Aiutare una persona nella difficoltà è il primo obiettivo degli operatori sanitari e sapere che un assistito può diventare una persona che ti aggredisce è un concetto molto difficile da capire e da elaborare.

Ecco allora la necessità di azioni di supporto e di azioni formative, fra cui quelle riguardanti le tecniche di de-escalation, come indicato dalla Raccomandazione ministeriale numero 8, che dà indicazioni su come saper interpretare una situazione che sta evolvendo verso un atto violento.

La capacità di riportare e contenere una relazione che si sta incrinando rappresenta già uno strumento importante nelle mani degli operatori, utile a prevenire tutta una serie di conseguenze potenzialmente dannose che, quando non lo sono a livello fisico, lo sono comunque sempre a livello motivazionale.

Non devono mancare progetti educativi rivolti anche agli utenti, ai cittadini, i quali devono tornare a vedere negli operatori sanitari dei professionisti il cui primo obiettivo è il mantenimento del loro miglior livello di salute possibile.

Lo scopo, insieme a quello di tante campagne di sensibilizzazione nel mondo – conclude Ramacciati – è quello di fare in modo che i colleghi non si abbandonino all’assuefazione alla violenza, ma che cerchino soluzioni.

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