"L'infermiere ascolta, informa, coinvolge l’assistito e valuta con lui i bisogni assistenziali, anche al fine di esplicitare il livello di assistenza garantito e facilitarlo nell’esprimere le proprie scelte. All’articolo 34 si trova: L'infermiere si attiva per prevenire e contrastare il dolore e alleviare la sofferenza. Si adopera affinché l’assistito riceva tutti i trattamenti necessari." (art. 20)
Negli ultimi anni si è sempre più spesso sentito parlare di accanimento terapeutico, fine vita, eutanasia. Basti pensare ai casi di Welby o di Eluana Englaro, entrambi condannati dagli eventi, dal destino, ad una vita completamente dipendente dalle più moderne ed avanzate tecnologie in grado di supportare le più elementari funzioni fisiologiche; essi sono stati protagonisti di scelte sul fine vita che hanno aperto gli occhi di tanti verso un mondo che forse per tanti anni si era ignorato.
Non si parlerà di quanto accaduto a queste due persone in codesto articolo, bensì di un argomento parzialmente correlato ai fatti accaduti a Welby e a Eluana, ovvero l’accanimento terapeutico e di come un infermiere di rianimazione si scontra con questo argomento, trovandosi nel bel mezzo di un conflitto morale tra quanto dettato dalle normative (codici deontologici, leggi dello stato) e le proprie convinzioni o punti di vista sull’argomento.
Cosa dice la legge italiana in merito all’accanimento terapeutico?
In realtà, ad oggi non esiste ancora un legge ad hoc sull’accanimento terapeutico o che meglio lo definisca; esistono disegni di legge sulle dichiarazioni di fine vita, alleanza terapeutica, ma niente che sancisca un netto confine tra cure dovute e accanimento. Facendo riferimento al codice penale, l’articolo 40 recita: non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo. D’altra parte, nella Costituzione Italiana, all’articolo 32 comma 2 si trova scritto: Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana. Va da sé che la scelta su quando arrendersi al naturale corso degli eventi che porterà alla morte dell’assistito, morte che deve essere imprescindibilmente la più dignitosa possibile, spetta all’equipe di cura ed assistenza. Le scelte sul fine vita, secondo quanto riportato in un articolo del 2010 pubblicato su “Scenario”, periodico di Aniarti, riguardano il 10% dei pazienti ricoverati in Europa e precedono il 73% delle morti; vi sono poi delle differenziazioni a seconda dell’area geografica, pertanto si osserva che nel sud del continente si attuano meno decisioni sull’argomento. Il professionista che assiste e cura la persona deve fare i conti quindi con le volontà espresse in vita dall’assistito e con la normativa. Quest’ultima, non essendo ancora molto chiara ed esplicita, è di difficile consulto. Tuttavia, nell’ambito della regolamentazione delle professioni, medico e infermiere hanno a disposizione ognuno il proprio codice deontologico e, dal momento che nell’esercizio della professione vi sono assoggettati, hanno l’obbligo di attenersi a quanto ivi scritto. Per quanto riguarda la volontà espressa in vita dalla persona, il suo rispetto è tutelato sia dal codice deontologico che dalla convenzione di Oviedo; in quest’ultima si trova l’obbligo di attenersi scrupolosamente al consenso alle cure espresso dal paziente, correttamente informato. Tuttavia, vi sono situazioni in cui il consenso non può essere fornito; basti pensare ad una situazione in cui la persona accede in ospedale in situazione di urgenza, incosciente; in questo caso la convenzione di Oviedo si pronuncia con quanto segue: allorquando, in ragione di una situazione d’urgenza, il consenso appropriato non può essere ottenuto, si potrà procedere immediatamente a qualsiasi intervento medico indispensabile per il beneficio della salute della persona interessata. Se successivamente le condizioni cliniche evolvono verso uno stato di coma persistente o stato vegetativo è evidente che le successive decisioni in merito al processo di cura della persona devono essere prese esclusivamente da chi se ne fa carico.
Le definizioni enciclopediche di accanimento terapeutico e di eutanasia sono apparentemente chiare: il primo è definito come “qualunque trattamento di documentata inefficacia in relazione all’obbiettivo, a cui si aggiunga la presenza di un rischio elevato o una particolare gravosità per il paziente, con un’ulteriore sofferenza e in cui l’eccezionalità dei mezzi adoperati risulta chiaramente sproporzionata agli obiettivi”. Si parla invece di eutanasia intendendo “il procurare intenzionalmente e nel suo interesse la morte di un individuo la cui qualità della vita sia permanentemente compromessa da una malattia, menomazione o condizione psichica”. Nei paesi anglosassoni il termine accanimento terapeutico è sostituito da termini come futility o therapeutic obstinacy, over treatment, aggressive medical treatment, la cui traduzione nella nostra lingua permette di scoprire ulteriori sfaccettature sul tema.
E’ quindi chiaro che il terreno su cui si cammina è alquanto paludoso. I codici deontologici di medico e infermiere possono aiutare a indirizzare l’agire professionale delle due figure. In entrambi si fa riferimento a consenso, qualità della vita, accanimento ed eutanasia. Per quanto concerne l’attività del medico, l’articolo 16 recita: Il medico, anche tenendo conto delle volontà del paziente laddove espresse, deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti diagnostici e terapeutici da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita. L’articolo seguente, il 17 invece parla di eutanasia: Il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare né favorire trattamenti finalizzati a provocarne la morte.
Nel codice deontologico dell’infermiere approvato nel 2009, gli articoli concernenti quanto trattato sono numerosi.
L’articolo 20 recita: L'infermiere ascolta, informa, coinvolge l’assistito e valuta con lui i bisogni assistenziali, anche al fine di esplicitare il livello di assistenza garantito e facilitarlo nell’esprimere le proprie scelte. All’articolo 34 si trova: L'infermiere si attiva per prevenire e contrastare il dolore e alleviare la sofferenza. Si adopera affinché l’assistito riceva tutti i trattamenti necessari. Il successivo (art. 35) sancisce il comportamento del professionista durante il fine vita: L'infermiere presta assistenza qualunque sia la condizione clinica e fino al termine della vita all’assistito, riconoscendo l'importanza della palliazione e del conforto ambientale, fisico, psicologico, relazionale, spirituale. In merito al controverso argomento dell’accanimento terapeutico, l’articolo 36 si pronuncia così: L'infermiere tutela la volontà dell’assistito di porre dei limiti agli interventi che non siano proporzionati alla sua condizione clinica e coerenti con la concezione da lui espressa della qualità di vita. Infine, in merito all’eutanasia: L'infermiere non attua e non partecipa a interventi finalizzati a provocare la morte, anche se la richiesta proviene dall'assistito (art.38).
Si è visto quindi come, allo stato attuale, la deontologia sia più esplicita della normativa di legge in merito a questi argomenti, pertanto i professionisti hanno elementi sufficienti ad indirizzare le proprie scelte terapeutico-assistenziali. L’articolo sopra citato pubblicato sul periodico di Aniarti Scenario, fornisce un quadro interessante sull’argomento, avendo somministrato a un pool di medici e infermieri operanti presso unità operative dove si ha il contatto con persone in fine vita un questionario con la pretesa di indagare la percezione sull’argomento. Dall’analisi dei risultati è emerso che più di tre quarti del campione intervistato ha avuto a che fare con casi di accanimento terapeutico e poco più della metà ha assistito a richieste di fine vita anticipata da parte dell’assistito stesso. Altro dato interessante è la diversa opinione di medici e infermieri circa il diritto di decisione della persona assistita di anticipare la fine della propria vita. Il 61,1% degli infermieri contro il 45,8% dei medici, ritiene che la persona ne abbia il diritto. Un dato molto significativo, che trova le sue motivazioni nella diversità della relazione tra medico e paziente e infermiere e assistito. Quest’ultimo si trova spesso più a contatto sia con la persona che con la sua rete parentale, essendo quindi maggiormente esposto al ricevere confidenze e manifestazioni di volontà. Inoltre va sottolineata al differenza di ruolo tra medico e infermiere nel processo di cura e assistenza al malato. Il medico, a causa della natura della sua professione, si trova maggiormente esposto durante il processo, essendo colui che prende le decisioni terapeutiche; il decesso della persona assistita o la presa di coscienza del fatto che si è di fronte a un punto di non ritorno comporta un maggior impegno psicologico. In tutto ciò l’infermiere si trova quasi in un ruolo di co-protagonista, a seconda della relazione instaurata con la persona. Va da sé che, in un processo veramente integrato di cura, il processo decisionale dovrebbe svolgersi in un clima di squadra dove medico, infermiere ed ogni altra figura professionale coinvolta nell’assistenza al malato possano contribuire attivamente alla decisione ultima, assumendosene oneri e onori; tuttavia vi sono ancora numerosi scogli di natura culturale da oltrepassare.
Ma chiunque si sia trovato, anche per un breve periodo, in un reparto di rianimazione sa bene che le sfaccettature sono molteplici e quando ci si trova davanti a situazioni simili, non esiste un vademecum di comportamento. Il confine tra la vita e la morte è molto sottile, e molto sottile è anche la differenza tra il fare la cosa giusta oppure no. Spesso in terapia intensiva vi si accede quando la situazione clinica del paziente è oramai al limite; ed è così che è proprio in rianimazione che ci si trova davanti casi tra i più complessi in quanto a clinica e a decisioni da intraprendere. L’innovazione tecnologica è tale che si hanno a disposizione devices e apparecchiature sempre più avanzate le quali sono in grado di supportare le più elementari funzioni vitali, rendendo la morte una cosa lontana e non così facile da raggiungere in certi casi. Tutti questi strumenti sono a disposizione del team di rianimazione; ma è proprio la loro natura di strumenti che implica che la decisione di utilizzarli o meno grava su medici e infermieri. Vi è altresì l’obbligo di considerare la situazione culturale del nostro paese. Sempre in misura maggiore, gli operatori sanitari si trovano a fronteggiare familiare che hanno la pretesa di sapere quello che va fatto e come va fatto, non rispettando l’elementare principio dei ruoli. Si va sempre di più verso una mancanza di fiducia nei confronti del personale sanitario; e così sempre più frequentemente si pretende sempre di più. È sempre più difficile accettare la morte come naturale decorso della vita; quando essa sopraggiunge si sviluppa, tra medici e infermieri, la paura di non aver fatto abbastanza e la paura di essere additati da parte di parenti e familiari del paziente come unici colpevoli di un destino che doveva in ogni caso avverarsi. Considerato quanto detto, emerge la assoluta necessità di un’evoluzione culturale e scientifica, nonché normativa affinché la fase più delicata dell’esistenza umana sia gestita nel modo migliore possibile. È essenziale al fine di sgravare il personale sanitario, professionisti che, ognuno nel proprio ambito di competenze, si adoperano per garantire un’assistenza la più completa, dignitosa e qualitativamente eccellente possibile. Ed è essenziale che ciascuno abbia il diritto di disporre della propria salute, in libertà e secondo le proprie ideologie. Nonostante ciò continueranno a presentarsi agli occhi dei clinici, casi complessi; ma con i presupposti sopra descritti, essi saranno gestiti attraverso un agire secondo scienza e coscienza, principi che dovrebbero guidare senza se e senza ma tutti i professionisti dell’assistenza e della cura.
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